Lo sguardo della Medicina Narrativa: apertura
21 settembre 2018, scritto da Francesca Memini
categoria: Punti di vista
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Lo sguardo della Medicina Narrativa: apertura

Lo sguardo che si apre davanti al volto, che esplora, mette in prospettiva, lo sguardo che comunica
Terzo post su "lo sguardo della Medicina Narrativa". Arrivo dunque all’ultima suggestione. L’ho lasciata per ultima perché è quella più complessa, in cui si intrecciano riferimenti diversi (non li citerò tutti, non ora, non qui) e quella su cui sto lavorando per discuterne con i partecipanti del workshop. 

Suggestione # 3: lo sguardo come apertura.


Il concetto di “persona” in alcune fonti greche (tra cui la Bibbia dei Settanta) è reso con il termine πρόσωπον [prósôpon]= sguardo che si volge avanti, l’avanti a sé del volto. L’occhio che guarda avanti sta nella prospettiva, che dischiude e raccoglie, ma che pure limita e nasconde. La persona è dunque prospettiva, sintesi indeclinabile e singolare di un mondo, una determinata, singolare e insostituibile costituzione di senso.

Lo sguardo non coincide con l’occhio. Tra l’occhio e lo sguardo c’è la stessa differenza che c’è tra il corpo come oggetto medico e il nostro corpo, il corpo vissuto.  Sono soggetto vedente e sono oggetto visibile nel mondo, esposto. 
È grazie/attraverso questo sguardo che conosciamo ed esploriamo il mondo, ma è uno sguardo limitato, finito, manchevole, non ha accesso alla verità del mondo, solo a una prospettiva incerta. Ed è uno sguardo fragile che il mondo può spezzare da un momento all’altro. Non raccoglie la totalità né spaziale né temporale. Non pre-vediamo. Non controlliamo ciò che vediamo, ciò in cui siamo gettati. Apriamo gli occhi e il mondo è già lì. Li chiuderemo definitivamente, anche se non lo desideriamo. In mezzo possiamo decidere dove rivolgere lo sguardo e cercare di dare un senso a quello che vediamo.

Con lo sguardo incontriamo altre persone. Intorno a me ci sono altre persone che riconosco come persone, quindi come corpi visibili dotati di sguardo. Da subito coesistiamo con gli altri, nasciamo come individui dalla relazione, nella relazione. Siamo dipendenti, dentro una rete di relazioni, anche quando siamo soli.
Il mio sguardo è limitato: non comprende tutto il reale ed è cieco a se stesso. Sì, c’è quello strano dispositivo generatore di paradossi che si chiama specchio. Ma l’unico vero specchio che può restituirmi me stesso vedente e non solo visibile è lo sguardo di un’altra persona. Per riconoscermi, identificarmi, ho bisogno di riconoscere l’altro. Il primo sguardo che incontriamo è quello della madre. Quella corrispondenza di sguardi – sguardo a cui risponde uno sguardo, reciprocità di sguardi - rappresenta la prima forma di comunicazione, pre-linguistica. La narrazione, prima ancora che siamo in grado di pronunciare parole, è già lì in quel primo incontro di sguardi. Siamo gettati in una comunicazione che non è fatta di trasmissione di informazioni, ma di dialogo.

Lo sguardo amorevole della madre è il modello dello sguardo riconoscente, che riconosce la mia vulnerabilità, la mia dipendenza dall’altro e se ne prende carico. Ma esiste anche lo sguardo che ci disconosce come persone. Lo sguardo che suscita pudore, la vergogna di sentirsi reificati e quindi usati, strumentalizzati come cosa tra le cose. Lo sguardo che ci ferisce e ci ricorda la nostra vulnerabilità. Nelle braccia della madre siamo all’estremo della nostra vulnerabilità, massimamente sicuri. 

Lo sguardo riconoscente - l’epifania del volto - implica il senso di responsabilità (re-spondere) per l’altro che vedo (dipendente e vulnerabile): è lo sguardo della Cura.  
Ma se lo sguardo dell’altro mi disconosce, non avrà cura e allora fuggo, mi sottraggo a quello sguardo.
    
Lo sguardo disconoscente, che ci vede solo come carne è quello che rischia di adottare una medicina riduzionista, che si allontana dal concetto di Cura.
 
Lo sguardo, come la parola sono problematici. Non ci danno quello che promettono. Solo stare nella relazione, continuare a guardare, continuare a parlare è il correttivo che non ci condurrà mai al compimento dello sguardo e della parola, ma al suo limite. 
Stare nella relazione è rassicurante e pericoloso: significa esporre la propria vulnerabilità, assumersi il rischio e la responsabilità dell’altro. Significa riconoscere la parzialità e la limitatezza del proprio sguardo, la nostra bisognosità, l’incertezza della conoscenza e dell’esistenza.

Apertura e narrazione


Perché raccontiamo? Qual è il senso della narrazione?
Racconto per dare un senso alla complessità che si apre al mio sguardo; per mettere a fuoco e dare un significato alla mia esistenza, per definire il mio punto di vista, chi sono, cosa voglio, dove sto andando; per decidere anche nell’incertezza; per ricucire il passato e il presente, per immaginare che cosa potrebbe succedere, per progettare, per dare un ordine al caos. Per continuare a esistere come individuo.

Racconto (e ascolto i racconti) per entrare in relazione con l’altro, per essere riconosciuto in quello che sono (una persona), per essere amato, accudito, curato, per condividere (una visione del mondo, un significato), per essere partecipe e rendere partecipi. Racconto per mantenere il legame sociale.
Individualità e relazione
Il riconoscimento dello sguardo dell’altro non è qualcosa di dato una volta per tutte: per vedere l’altro devo metterlo a distanza, per riconoscerlo devo metterlo a fuoco. C’è una distanza da colmare che è un valico infinito; è un compito infinito a cui quello sguardo ci chiama. 
La narrazione è la parola situata nella relazione. La narrazione tiene sempre conto dell’altro, si modula, sceglie e problematizza le parole, chiede una risposta, parte da una responsabilità. Possiamo scegliere anche di strumentalizzarla, di usarla per manipolare, ma la narrazione che parte da uno sguardo amorevole è narrazione che cura. 
La narrazione è narrazione di un mondo interiore, esternazione di un punto di vista sulla realtà, condivisione di una verità singola e singolare. La narrazione parla di individui, non di verità universali.  

La narrazione parla di qualcosa che va storto, non c’è narrazione senza imprevisto. Come fanno a non esserci imprevisti quando siamo così fragili, limitati, esposti, vulnerabili, inconsapevoli e manchevoli? Le storie parlano di come diamo senso a tutto questo, della nostra esperienza dell’esistenza.

La narrazione è sempre esposta al rischio del fraintendimento. Siamo individui in una rete di relazioni, sociali e culturali, possiamo parlare e narrare perché facciamo riferimento a questo patrimonio relazionale, a un linguaggio comune. Ma quanto è comune questo linguaggio a uno sguardo individuale?  Le narrazioni condivise, anche quelle archetipiche, sono sempre re-interpretate alla luce della mia storia personale, quando le narro e quando le ascolto. E allora? Le raccontiamo di nuovo, le ascoltiamo di nuovo, usiamo altre parole, altri stili, altri linguaggi… ma continuiamo a stare nella relazione. 

Ho rubato, banalizzato, rimescolato, interpretato riflessioni e parole da: Mortari, Levinas, Merleau-Ponty, Husserl, Sartre, Blanchot, Heiddeger, Petrosino e non so chi altro. Non ho pretese di rigore per queste note. Per rendere più suggestive le suggestioni, ho aggiunto alcune immagini. Parlando dello sguardo, mi pare il minimo.



Appendice: La radura

La radura è quello spazio nel bosco in cui all’improvviso si apre la luce. E’ un apertura.
Rita Charon parla della medicina narrativa come di una radura “we gather in these clearings to know together what it means to have a body, to be mortal, to age, to become ill, to become better, and to be alive”  . La metafora della radura deriva da questo brano di Toni Morrison, nel libro Amatissima:
“Quando veniva la stagione calda, Baby Suggs , la santa, seguita da tutti gli uomini, le donne e i bambini neri in grado di farcela, portava il suo grande cuore alla Radura, un posto ampio e arioso ricavato nel fitto di un bosco che nessuno conosceva assolutamente, alla fine del sentiero noto solo ai cervi e a chiunque fosse stato il primo a disboscare il posto. Nella calura di tutti i sabati pomeriggio, sedeva nella radura mentre la gente aspettava tra gli altri (…).
Allora gridava: “avanti i bambini!”, E questi si staccavano dagli alberi e correvano da lei.
“Fate sentire a vostra madre come ridete”, diceva loro, e i boschi risuonavano di risate. Gli adulti stavano a guardare e non potevano fare a meno di sorridere.
“Avanti gli uomini”, gridava poi. E loro uscivano a uno a uno dal cerchio degli alberi che risuonavano di risate.
“Fate vedere alle mogli e ai figli come ballate”, diceva loro, e la terra tremava sotto i loro piedi.
Infine chiamava le donne. “piangete”, diceva loro. “Per i vivi e per i morti, piangete pure”. Le donne si lasciavano andare, senza neanche coprirsi gli occhi. Dunque, l’ordine era quello: i bambini che ridevano, gli uomini che ballavano, le donne che piangevano. Poi, però, si mescolava tutto. Le donne smettevano di piangere e ballavano, gli uomini si mettevano seduti e piangevano, i bambini ballavano, le donne ridevano, i bambini piangevano finché, esausti e provati, non si stendevano tutti quanti sul terreno umido della radura, senza più fiato. Nel silenzio che seguiva, Baby Suggs, la santa, offriva loro il suo grande cuore. 

Una radura più nota (almeno a me) rispetto a quella citata dalla Charon  è quella di  cui parla Heidegger, la lichtung.  Ieri, però, ho scoperto un’altra radura in un quadro descritto in "Sul guardare" di John Berger. Il quadro è “Taglialegna nel bosco” di Şeker Ahmet, realizzato verso la fine dell 1800, da un artista turco influenzato dalla pittura francese di Courbet. Un dipinto tecnicamente “sbagliato” che ossessiona l’autore del testo per la sua “precisione esistenziale”. Berger riconosce in questo quadro lo stesso significato della lichtung del filosofo tedesco: "compito della filosofia è trovare il Weg, il sentiero del taglialegna, attraverso la foresta. Il sentiero può condurre alla Lichtung, la radura il cui spazio, aperto alla luce e alla visuale, è la cosa più sorprendente dell’esistenza, ed è la condizione stessa dell’Essere. «La radura è l’Aperto per tutto ciò che è presente e tutto ciò che è assente.»

Le metafore, le storie, si scrivono e si ri-scrivono (e si ri-dipingono), nel tempo, aggiungendo e spostando significati. All’infinito, finché ci sarà l’uomo.


(spero sia chiaro che con sguardo non intendo il senso della vista, ma il concetto di apertura e costituzione di senso).