Medicina Narrativa tra metodologia e virtù
13 maggio 2018, scritto da Francesca Memini
categoria: Punti di vista
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Medicina Narrativa: dalla metodologia alla virtù?

Che cos'è la Medicina Narrativa: se ne discute da anni. In Italia ci abbiamo fatto anche una Conferenza di Consenso, durante la quale è stata definita una metodologia clinico assistenziale basata su specifiche competenze. Potrebbe essere giunto il momento di rivedere quella definizione?
In questi giorni durante il II Congresso Nazionale della SIMeN, ho avuto modo di confrontarmi con il professor Virzì, past president e fondatore della società, sulla necessità di un passaggio dalla definizione della Medicina Narrativa come metodologia per la pratica clinica (secondo quanto stabilito dalla Consensus Conference) a un significato più ampio di movimento culturale.

Ho sempre avvertito un certo iato tra la definizione della Consensus e, per esempio, quella di Rita Charon che definisce la MN come una medicina basata su competenze narrative. La Charon si tiene lontana dalle metodologie. Anche il concetto di competenza narrativa è piuttosto vago in termini “scientifici”. Le uniche metodologie che ha definito negli anni sono quelle formative (il metodo per formare alle competenze narrative, per esempio basato sul close reading e sulla scrittura riflessiva/creativa) che comunque sono aperte, flessibili e costantemente in evoluzione. 
(Tra parentesi la nostra conferenza di consenso ha lasciato questa parte sulla formazione ancora tutta da fare.)

La sensazione è che la Consensus abbia in qualche modo costituito il libro intorno a cui legare il popolo della medicina narrativa, come in una religione. E ora sulla base dell’esegesi della Consensus ci si erige a protettori dell’ortodossia. Anche io, anche io mi sono schierata in questo bisogno di ortodossia, di costruire una medicina narrativa “depurata” dagli errori e dalle interpretazioni errate. A sentirmelo raccontare così mi rendo conto di quanto questo atteggiamento sia sostanzialmente settario e contrario alla stessa medicina narrativa, più o meno come il tribunale dell’inquisizione era incoerente verso l’autentico messaggio cristiano (ama il prossimo tuo come te stesso). L’integrazione dei punti di vista. La co-costruzione. L’ascolto.

Perché l’abbiamo fatto? Perché serviva un’identità forte intorno a cui aggregarsi. Ma forse siamo pronti per un passaggio successivo. Quando l’identità si è strutturata, quando abbiamo un certo grado di sicurezza (affettiva), scompare il bisogno di difendersi e ci si può aprire all’altro. È un movimento, dall’io al tu, all’io e al tu. Dove l’io e il tu possono anche essere identità sociali. Scoppiare la bolla, uscirne per ribaltare la polarizzazione in collaborazione.

Abbasso le semplificazioni! Viva l’incertezza!

Il bisogno di “metodologie” che poi si traduce nella strutturazione di strumenti, linee guida, format, diagrammi di flusso, checklist… strutture rigide in cui incasellare un sapere complesso. Si torna a quell’ansia di controllo (e manipolazione) della realtà che mi sembra carattere distintivo di certa medicina scientifica.
Un bisogno di semplificare la complessità del reale per passare in fretta alla pratica, per applicare e portare risultati (quali poi? Le conseguenze a lungo termine e sul sistema sono sempre più o meno impredittibili). Che quando hai un arto in setticemia ci sta anche, ma quando ti stai prendendo cura di un 80enne con un tumore, forse non ci sta più. 
Invece penso che la medicina narrativa dovrebbe portarci a un rallentamento, quasi una pratica meditativa, ma anche più semplicemente, a riflettere prima di agire. E anche all’accettazione dell’indeterminatezza, a lasciar andare quel bisogno di controllo e di successo che è solo una narrazione della nostra cultura, ma una narrazione affabulatoria e infantile, non costruttiva e adulta.
Avere la checklist delle domande per applicare la medicina narrativa, dà sicurezza: se faccio così, sto facendo la cosa giusta. E su questa falsa sicurezza, si continua a sbagliare. Non ci sono scorciatoie, non ci sono trucchi da imparare, algoritimi o strategie da applicare. 
Bisogna cambiare il proprio modo di guardare la realtà, prima di agire. Bisogna accettare che con le persone non ci sono regole ferree, ma bisogna essere plastici e adattabili. Forse non è nemmeno questione di acquisire competenze. Bisogna cambiare. Punto.

Dalla metodologia alla virtù

Mi sto sempre più affezionando a due concetti. Uno è quello di Umiltà Narrativa.
Sayantani DasGupta in un articolo su The Lancet del 2008 , la descrive così: 

"One very literal aspect of narrative humility is the fact that the patient’s story, at least initially, belongs entirely to him. Unlike the physician of mine who, during a recent personal illness, interrupted me to say, “You don’t have to say any mo-re. I know exactly how your story ends”, clinicians cannot, of course, ever exactly know how any illness story begins or ends. As careful interviewers and witnesses, we become invested in, wrapped up with, and, yes, coauthors of our patient’s illness narratives, but we cannot ever claim to comprehend the totality of another’s story, which is only ever an approxi-mation for the totality of another’s self."

Ma che cos’è quindi l’umiltà narrativa? Non è una metodologia, forse non è nemmeno una competenza. Io la definirei piuttosto una virtù. 

L’altro concetto è quello di “Negative Capability”, che non saprei proprio come tradurre (capacità negativa non sembra funzionare in italiano). Ne parla Jack Coulehan in un altro articolo del 2017 su JAMA , citando la definizione del poeta John Keats 
“At once it struck me what quality went to form a Man of Achievement, especially in Literature, and which Shakespeare possessed so enormously - I mean Negative Capability, that is, when a man is capable of being in uncertainties, mysteries, doubts, without any irritable searching after fact and reason.”

Coulehan si domanda se e in che modo questa caratteristica possa essere anche un attributo del buon medico (oltre che del buon poeta):

"In his famous turn of phrase, Keats obviously chose to give “negative” a beneficial meaning. Negative in this context implies passivity, receptivity, and humility, yet it seems these qualities are precisely what made the difference between a competent poet like Coleridge and a truly creative one. Does this sense of negativity have a place in the art of medicine? Does it tell us anything about the difference between merely competent and master clinicians?"

Conclude che questa capacità di stare nella ricettività, nell’ascolto, nella riflessione e nell’accettazione anche dell’incertezza e del mistero non solo è importante per il medico, è la capacità di vedere la poesia nella vita.  e la pratica della medicina è “simply poetry in motion”. anche questa negative capability, a mio avviso, è una virtù